Sui campi da tennis di Bassani
21 Giugno 2016
Torna all'elenco degli articoli«Non ero tipo da esami di coscienza, allora. Ero un ragazzo dotato di un fisico eccellente (giocavo al tennis niente affatto male: ormai posso dirlo senza falsa modestia), e la vita, per me, era tutta da scoprire: qualcosa di aperto, di vasto, di invitante, che mi stava dinanzi; e a cui mi abbandonavo con impeto cieco, senza voglia, mai, di ripiegarmi su me stesso un momento solo. Durante l’estate del ’35, tuttavia, dopo quel primo anno di università, credo che un bilancio, più o meno consciamente lo avessi fatto. Che cosa volevo fare della mia vita? L’Artista, o lo Studioso? Se ripenso alle lezioni di Storia della letteratura italiana, alle quali, l’anno precedente, non ero mancato una sola volta; se ricordavo l’invincibile sopore che mi prendeva, ogni volta, negli assolati pomeriggi della passata primavera, ascoltando dal banco la voce sommessa e monotona del professore d’italiano, a cui, oltre tutto, non potevo perdonare di aver parlato male d’Ungaretti in un suo famigerato volume sulla letteratura del Novecento; se tornavo con la mente alla noia, al sopore, alla tetraggine di quelle ore (non restava per sopportarle, che guardar fuori dai finestroni verticali dell’aula, o concentrarsi a fissare qualche compagna): se consideravo tutto ciò, mi dicevo che la carriera dello Studioso, la carriera dello Storico della letteratura italiana, non poteva, assolutamente, essere per me. Ma l’Arte, d’altronde? L’università, cioè lo Studio, era la noia, la polvere, il tedio accademico. D’accordo. Ma l’Arte? L’Arte era Ungaretti, i versicoli dell’Allegria: qualche cosa di molto problematico, vago, e incantevole. Come la vita. Come il futuro che mi stava dinanzi. Come il tennis e gli amori… Si poteva, seriamente, fondare la propria vita su cose come queste?»
Giorgio Bassani